Oggi, a cinquantatré anni, se ne andava Barry Sheene, il pilota, l’uomo più iconico del motociclismo. Se pensate a Giacomo Agostini e Valentino Rossi vi dico solo questo: Ago è stato uno straordinario professionista, un perfezionista e senza dubbio un asso decisamente in anticipo sui suoi tempi. Ineguagliabile. E Vale uno straordinario personaggio, che è facile rimpiangere anche ora.
Barry, però, è stato l’uno è l’altro alla fine degli anni ’70. Una icona la cui immagine campeggiava sui cartelloni di Piccadilly Circus a Londra, con la pubblicità del dopobarba Fabergé.
Ed è stato un iconoclasta: ha detto no al Tourist Trophy nel 1977, che è stato un po’ come stracciare la foto del Papa, come fece Sinéad O’Connor nel 1992.
Sheene, come più tardi ho visto solo fare ad Ayrton Senna, parlava inglese con gli inglesi, spagnolo con gli spagnoli, francese con i francesi ma non conosceva solo le lingue: sapeva tutto di ogni giornalista, leggeva tutto, ed era lui a fermarti per darti una informazione o se avevi scritto una imprecisione.
Sempre con quel sorriso, con quell’espressione negli occhi da furbetto che non ammaliava solo le ragazze, di cui certo non nascondeva di essere attratto con parole ed opere che oggi sarebbero giudicate sconvenienti, ma non lo erano. Barry era felice, questo era il sentimento che trasmetteva. E la sua Rolls Royce targata 4BSR con l’adesivo “elicopter pilots get it up quicker”, un ironico doppio-senso, era la dimostrazione della sua felicità.
Se ne è andato a 53 anni, questo giorno e ogni tanto penso a quanto sarebbe bello rincontrarlo nel paddock. Mi manca come un caro amico.