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SBK, Rea, un poker d'assi che sbanca il tavolo della Superbike

Il nordirlandese pareggia i 4 mondiali vinti da Carl Fogarty, ma con un numero di affermazioni più alto, ben 67 contro le 59 dell'inglese 

SBK: Rea, un poker d'assi che sbanca il tavolo della Superbike

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Andando avanti di questo passo, Jonathan Rea rimarrà, quantomeno nell’ambiente Superbike, il pilota vincente più criticato della storia: “è merito suo o della moto?” Il percorso agonistico, già descritto lo scorso anno dopo la conquista del terzo titolo, gli ha consigliato di restare con la Kawasaki del team Provec, unico team davvero supportato dalla Casa madre giapponese nelle derivate.

Chi pensava che lo stravolto regolamento tecnico studiato per penalizzare il vincitore - lui - avrebbe placato l’appetito del Cannibale, si sbagliava: stuzzicato nell’orgoglio, il nordirlandese ha messo al lavoro gli ingegneri di Akashi, ha compiuto le giuste mosse con la squadra ufficiale, ha leggermente faticato nei primi round, poi ha ricominciato a divorare tutto ciò che trovava nel piatto: avversari, record, successi.

Nominato Membro del Regno Unito, Johnny si sta rivelando - a discapito di show ed interesse generale - il Re della noia ma, del resto, che colpa ne ha? Chiunque, al suo posto, vorrebbe vincere a mani basse un numero così impressionante di gare, 66 prima dello start del round francese.

E tutti quei titoli: arrivato in Francia con la bottiglia di champagne pronta ad essere stappata, Rea ha tranquillamente dichiarato di non essere interessato ad eventuali calcoli o strategie; l’unico obiettivo del numero 1 era il gradino più alto del podio, degna posizione per celebrare il quarto Mondiale.

La “pratica Magny-Cours” è stata archiviata con il solito stile da dominatore, scatto bruciante (il launch control della ZX10-RR è perfetto) ritmo martellante e fuga per la vittoria, la tredicesima stagionale, la numero 67 in carriera.

Conoscendo bene Carl Fogarty - apparentemente disinteressato e distaccato da quanto accaduto - sappiamo come The King non sia affatto contento di lasciare lo scettro di chi comanda nelle mani del suo successore: se l’inglese era il maestro, il nordirlandese è l’allievo, con caratteristiche diametralmente opposte.

Foggy era un trascinatore, un impulsivo, assolutamente spontaneo e rude: di buon mattino ruttava nella pit lane, spesso scorreggiava in sala stampa. In pista esaltava il pubblico britannico e non, grazie a manovre folli, come folli erano i suoi occhi, accompagnati dallo slogan di quei tempi: “No fear, Foggy is here”. Memorabili le sue zuffe con personaggi quali Russell e Chili, che ricordano Carl con grande affetto. Inoltre: le moto di Carl erano (specialmente per un fine collaudatore quale Luca Cadalora) inguidabili, fuori assetto, come spesso lui era fuori forma, perché detestava l'allenamento fisico.

Rea è, invece, silenzioso, essenziale nelle parole e nei movimenti, sia nel garage che in sella. Anche quando bisticcia con qualche rivale, pur tirando fuori qualche parolaccia, Johnny rimane composto, misurato. Johnny vuole un setting della sua Ninja perfetto e, a motori spenti, egli ama allenarsi costantemente.

Come festeggia una vittoria Rea? Il Cannibale somiglia all'australiano Michael Doohan, che non era freddo, bensì, modesto: il cinque volte iridato 500 con la Honda era un pilota di sostanza e poca apparenza, esattamente come è Rea oggi.

Il poker servito agli avversari sul tavolo di Magny-Cours ha visto Johnny battere in una divertente ed improvvisata partita a carte i membri dello staff Kawasaki e la sua esultanza dopo il benservito è stata la più calda di tutte quelle esibite dal primo alloro datato 2015 al quarto centrato oggi.

 

 

 

 

 

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