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NICKY HAYDEN, Il Campione Sorridente

"Cosa sarebbe accaduto se non avessi vinto quel titolo? Sarei, probalmente diventato un vecchio amaro"

NICKY HAYDEN, Il Campione Sorridente

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Oggi, cinque anni, ci lasciava Nicky Hayden, riproponiamo questo ricordo del campione sorridente.

 

Sono passati diversi anni ormai, ma c'è stato un gesto di Nicky Hayden che non dimentico.

Tornavo ai Gran Premi dopo un difficile momento personale, con quella fragilità addosso che ti lasciano certi momenti della vita.

Ero un po' a disagio, così entrai nel box della Ducati a prendere un caffè e lui mi vide prima che io vedessi lui: dall'atteggiamento capii che stava chiedendo ad una ragazza del team se era il caso di venire a salutarmi e, avutane una risposta affermativa si staccò da lei e me lo ritrovai davanti. La mano tesa ed un bel sorriso stampato su quella bella faccia da ragazzo americano.

Il suo era un sorriso che stava su senza fatica e per questo faceva morire le donne che lo incontravano: gli si rifletteva negli occhi e non spariva mai.

Mi porse la mano, stringendomela.

"Volevo sapere come stai", mi disse.

Nel suo gesto non c'era nulla di forzato e riconobbi la sua espressione fra l'imbarazzato ed il compreso che gli si dipingeva sul volto quando voleva comunicarti che la giornata era andata così, un po' storta. E che lui non aveva potuto farci niente. Che domani sarebbe andato più forte, che era la vita di un pilota attraversare momenti belli ed altri meno belli ma sarebbe andato avanti comunque credendo in sé stesso senza mai cercare scuse.

Una filosofia fatta a puntino per le corse ma che era poi anche la sua filosofia di vita e che condividevo pienamente. Tutti assieme, ognuno su traiettorie diverse, verso lo stesso traguardo.

Restammo così, uno di fronte all'altro, per qualche minuto, dicendoci cose che non ricordo e che, probabilmente, non avevano alcuna importanza. Ma lui non era lì per questo. Era lì solamente per farmi sentire che non eravamo pilota e giornalista, su due fronti diversi, su due sponde del fiume, ma assieme sulla stessa barca e trascinati dalla stessa corrente.

Human being, in americano.

Era il 2003 quando lo incontrai per la prima volta nel box della Honda che lo aveva scelto come compagno di squadra di Valentino Rossi. Un 22enne che si era fatto largo a suon di vittorie nella Superbike americana catapultato in Europa.

"Perché corro con il numero 69? Beh, è un numero che puoi leggere anche quando la moto è sottosopra dopo una caduta",  mi disse ironico.

Ci mettemmo a ridere. Con lui c'era il padre, Earl. Il capostipite di una famiglia interamente votata alle corse in moto. Tommy, il fratello maggiore, Nicky il figlio di mezzo, Roger Lee, e poi due sorelle, Kathleen e Jenny.

Earl parlava un americano veramente difficile da comprendere, ma la storia era che tutti avevano girato gli States all'interno di un furgone-camper stipato di moto e pezzi di ricambio correndo ogni domenica in una pista di flat track diversa. Tommy ad ogni fine stagione passava moto ed abbigliamento al fratello minore, che a sua volta la passava al successivo. Il che voleva dire che a volte Nicky si era trovato a correre con un rottame indossando una tuta rattoppata. Ciononostante era passato di vittoria in vittoria, con la famiglia unita attorno, finché non aveva abbandonato le piste di terra per l'asfalto dei circuiti e vinto il titolo AMA, l'american motorcycle association. Era stato allora che era arrivata la chiamata della Honda. Destinazione: il motomondiale.

Ne erano passati di anni, dal quel primo incontro. Ben sei e nel frattempo Nicky aveva realizzato il suo sogno vincendo il titolo iridato della MotoGP al quarto anno dal suo debutto, nel 2006, battendo proprio Valentino, l'ex compagno di squadra.

Era stato un campionato combattuto, con numerosi colpi di scena e clamorose sfortune da entrambe le parti, così tagliato il traguardo Nicky avvolto nella bandiera americana aveva pianto. Un pianto dirotto, disperato.

"Cosa sarebbe accaduto se non avessi vinto quel titolo? Sarei, probabilmente diventato un vecchio amaro", rispose non cercando di nascondere che quel successo, festeggiato gareggiando l'anno successivo con il numero uno sulla carenatura al posto dell'iconico 69 era un po' l'obiettivo della sua vita.

Una sua vita che immagiva semplice. Ad Owensboro, la sua cittadina, sulla terra attraversata da una strada che da un po' di anni porta il nome della sua famiglia.

Lo confesso: ho sempre avuto un debole per i piloti americani, da Kenny Roberts, l'iniziatore di un'altra dinastia, il primo a vincere un mondiale della 500, nel 1978 ad Eddie Lawson, passando per Wayne Rainey, Kevin Schwantz, Freddie Spencer e Randy Mamola.

Il motivo è che ho sempre visto in loro degli sportivi veri, educati come sportivi e per questo li ho ammirati, ma Nicky Hayden sotto questo punto di vista è stato il migliore di tutti. Mai una parola fuori posto, un gesto scortese. Tutti lo ricordiamo urlare la sua rabbia quando, nel 2006, fu trascinato in terra durante il Gran Premio del Portogallo dall'allora compagno di squadra Dani Pedrosa, che rischiò di fargli perdere il mondiale, uno dei momenti di quel mondiale di cui abbiamo appena parlato. Ma dieci minuti dopo Nicky aveva già indosso quel suo particolare sorriso e né lui, né il padre Earl che era al suo fianco dissero nulla.

Non era come se si stessero trattenendo. Semplicemente erano entrambi consapevoli che alle volte la vita ti riserva brutte sorprese e bisogna affrontarle.

Ma naturalmente poi c'erano anche i momenti belli, che Nicky condivideva senza imbarazzo. Come quando, lo scorso inverno, si era fatto fotografare a Venezia, in gondola, mentre chiedeva alla sua Jacky, piccola, minuta, silenziosa, rispettosa degli spazi di un pilota, di sposarlo.

Un gesto romantico, sicuramente spontaneo visto che per dichiararsi non aveva trovato nulla di meglio da indossare che una tuta mimetica!

Si sarebbero sposati probabilmente durante l'estate, nella pausa fra una gara e l'altra, Nicky e Jacky. Non correva per vivere Hayden da molti anni, ma sicuramente viveva per correre. E no, comunque fosse continuata la sua carriera, non sarebbe mai diventato un vecchio amaro.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere dello Sport

 

 

 

 

 

 

 

 

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