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AMARCORD Quella Dakar in cui con Soldano cercammo di 'salvare' la Yamaha di Findanno

La Parigi-Dakar era una corsa in linea: nessuno ti aspettava, e non solo a chi rimaneva indietro non rimaneva che il camion scopa, ma anche i mezzi spesso venivano abbandonati, se non individuati dai camion assistenza, specie quelli dei privati

AMARCORD Quella Dakar in cui con Soldano cercammo di 'salvare' la Yamaha di Findanno

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Oggi alla Dakar le preziose moto vengono recuperate con l'elicottero. Una volta diventavano balise nel deserto. Venivano spogliate. Le auto si riducevano a scheletri, perché in Africa tutto viene riciclato. Era la Parigi-Dakar, quella vera: 14.000 Km nord-sud.

Accadde nel...chi si ricorda l'anno? Rammento solamente che eravamo in auto, io e Gigi Soldano, al seguito della Parigi-Dakar, in una vettura stampa molto particolare: una Mercedes 280 GE che con Klaus Seppi e Maurizio Arrivabene si era classificata 6a assoluta nel 1987.

Quel 4X4 andava molto forte per cui, dopo esser partiti nella notte ed aver trovato un buon posto dopo l'alba per scattare qualche foto ai motociclisti più veloci, potevamo riprendere la pista per cercare qualche altro bello scorcio. Funzionava così la nostra Dakar: quattro, cinque fermate, per scattare a moto, auto e camion, finché faceva troppo buio per ricavarne buone immagini. Ed allora ci toccava proseguire nella notte, sulle piste devastate dai concorrenti, finché in lontananza appariva il lampeggiante di fine tappa che significava la vicinanza del bivacco, un pasto caldo all'Africatours e qualche ora di sonno prima di ripartire.

Erano giornate lunghe, ma eravamo giovani ed entusiasti ed ogni tanto ci scappava anche qualche bella foto in notturna, come quando davanti a noi capottò e prese fuoco un'auto che divento la copertina di Dakar, Dakar!

In quell'occasione, però, era ancora giorno ed il sei cilindri benzina da 180 cv ronfava sonoro mentre le 4 Michelin Desert mordevano il sabbione quando, ai bordi della pista, vedemmo la Yamaha Ténéré di Findanno. Non lo sapevamo ancora, ovviamente, lo apprendemmo in nottata, ma Giampiero era caduto rimediando un trauma cranico ed aveva dovuto abbandonare. La sua moto però appariva intatta. Ci fermammo.

Un giro attorno alla moto bastò per confermarci che non aveva danni apparenti. E poiché all'epoca mettere in moto con la pedivella era un esercizio comune la accesi. Il motore teneva il minimo regolarmente.

"Voglio provare a portarla al bivacco". Lo dissi d'impeto, senza nemmeno pensarci e senza lasciare a Gigi il tempo di replicare.

Il casco, anche per noi, era obbligatorio, lo calzai. In sella, praticamente toccavo il terreno con la punta di un piede e mezzo sedere fuori dalla sella. Realizzai che senza stivali da cross non sarebbe stata una guida comodissima ma, come ho detto eravamo giovani e Dakariani. Partii. Con tutta l'incoscienza e la voglia di afferrare qualsiasi occasione ci si parava davanti. Un giornalista, ma soprattutto un motociclista, ancorché con praticamente zero esperienza di fuoristrada se si eccetuava qualche uscita in regolarità con i miei amici Francesco, Guido e Dionisio.

Guidavo in piedi sulle pedane, come avevo visto fare a Picco e già mi immaginavo l'arrivo al bivacco, dove avrei potuto consegnare la moto alla Yamaha per la quale sarebbe stata un prezioso ricambio per i suoi piloti. Ma feci pochi chilometri.

Guidare in piedi nel sabbione non è un gesto banale, non più di quanto sia piegare a 65° e toccare col gomito. Bisogna tenere il gas aperto per far galleggiare la ruota anteriore nella sabbia e molleggiare sulle gambe come a cavallo. Bene, fra i tanti miei sport come Pentathleta c'era anche l'equitazione, ma già dopo pochi chilometri le gambe mi iniziarono a cedere: guidavo e cercavo di controllare la moto di forza, invece di farla galleggiare sulla sabbia, così inizia a poggiare il sedere sulla sella. Ed ogni volta che lo facevo, rallentavo e la ruota anteriore affondava. A quel punto reagivo stringendo il manubrio con più forza. Credo di aver capito quel giorno cosa accade, sul ring, quando le braccia e le gambe iniziano a farti male e non ti consentono di muoverti agilmente. E' allora che capisci chi, dei due, finirà per prenderle.

"Fermati! Smonta!", la voce di Gigi arrivò perentoria dalla 280 GE.

"Faccio qualche altro chilometro, poi mi riposo", gli urlai di rimando, poco convinto.

"Fermati, altrimenti invece che la moto mi tocca riportare la salma!", ribatté Gigi.

Equivaleva, quella frase, al getto della spugna dal mio angolo. Fu come vedere volare lo straccio e non  mi piacque ma mi fermai, sudato. Mi venne in mente David Bowie: We can be heroes, just for one day. Ma non era, non sarebbe stato quello il giorno. Gigi scese dall'auto e mi aiuto a spingere la moto nella sabbia appena fuori dalla pista. Poi con l'aiuto dei ferri di bordo smontammo il mono e le ruote. Ricambi preziosi. Segnammo la posizione, ben sapendo che difficilmente la moto sarebbe stata recuperata.

Quando ripartimmo fu come lasciare un amico sul terreno con una gamba rotta. Seguii con lo sguardo la moto che rimpiccioliva avvolta nella polvere. Non avrei visto il lampeggiante di fine tappa. Non sarei stato accolto come un eroe per aver recuperato una moto, ma qualcosa comunque avevamo.

Un mono e due cerchi era tutto ciò che salvammo quel giorno. Ma era pur sempre qualcosa. Non potevo dire di essere soddisfatto, il mio ego era uscito bastonato da quel tentativo ma la sera, infilandomi nel sacco a pelo, mi riproposi, al mio rientro, qualche uscita in fuoristrada. Hai visto mai.

 

 

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