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LEGGENDE Eddie Lawson e l'ultimo spettacolo a Kyalami

In Sud Africa Awesome Lawson corse l'ultima gara della sua carriera, in sella alla Cagiva 500, senza finirla, entrando di diritto nella leggenda della 'Golden Era'

LEGGENDE Eddie Lawson e l'ultimo spettacolo a Kyalami

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A Kyalami si correva sempre sotto una bella luce. A 1500 metri di quota l'aria era tersa ed era bello starsene appoggiati al vecchio muretto della pitlane a vedere i piloti della 500 avventarsi sul rettilineo con i motori che ululavano e le moto che scodavano mentre loro si accucciavano dietro al cupolino per offrire la minore resistenza possibile all'aria.

Sfrecciavano come giganteschi calabroni colorati ed io immaginavo di essere in sella, ranicchiato dietro al plexiglass, col naso nel contagiri, a respirare l'aria rovente del radiatore invece di starmene lì con un taccuino in mano. Era come stare all'ippodromo a vedere i cavalli uscire dalla curva sperando di avere il biglietto del vincente stretto in mano. Ogni giro il cuore accelerava i battiti.

Quell'anno, era il 1992, Wayne Rainey si stava giocando il mondiale  nell'ultima gara. Per farcela sarebbe dovuto arrivare davanti a Mick Doohan in una posizione migliore della sesta. Non era scontato, ma ciononostante aveva rifiutato l'aiuto del compagno di squadra, Jon Kocinski, offertogli da Kenny Roberts.

Wayne Rainey si stava giocando il mondiale, ma io ero lì per l'ultima gara di Eddie Lawson

Mi giravano nella mente, queste cose, perché avrei dovuto scriverne, ma in realtà il duello pur appassionante per il titolo non mi interessava. Sapevo infatti che quella sarebbe stata l'ultima gara di Eddie Lawson in sella alla Cagiva. Non avrebbe più corso, dopo.

Eddie al lavoro nella sua officina

Quel Gran Premio del Sud Africa dunque era una specie di ultimo spettacolo ed avevo deciso che me lo sarei goduto fino in fondo.

Per questo, nel fine settimana, ero stato una presenza fissa all'interno del suo box. Fra di noi c'era un'amicizia nata al suo arrivo nel mondiale come compagno di squadra di Roberts, nel 1983. Dopo le prove o la gara, Giacomo Agostini che gestiva il potente team Marlboro-Yamaha, ci accoglieva nel motorhome con i due piloti ma tutte le domande erano ovviamente per King Kenny.

Eddie se ne stava in silenzio, ma ne avevo fatto un punto d'onore nel farlo parlare

Eddie se ne stava quasi sempre in silenzio, con ancora la tuta indosso a far tappezzeria. Magari a lui non gliene fregava niente, magari addirittura preferiva pensare ai fatti suoi invece di rispondere alle domande di quei rompiscatole dei giornalisti, ma io cominciai egualmente a tirarlo dentro la conversazione.

Ne avevo fatto un punto di far parlare Lawson, così aveva iniziato a salutarmi quando entravo nel suo campo visivo. Sapeva che alla fine avrei chiesto la sua opinione, sul campionato, sul rendimento della sua moto, su qualsiasi cosa.

Era all'epoca un ragazzo introverso catapultato dal mondo delle corse americane a quelle europee del cosiddetto Continental Circus. Dopo quella prima stagione, l'83, Lawson si rivelò per quello che era: battè Freddie Spencer, il campione che l'anno prima aveva detronizzato il suo caposquadra e mise in bacheca quattro titoli mondiali.

A quei tempi non gli facevo più domande per aiutarlo – così pensavo io – a stare a suo agio fra gente sconosciuta. Lo intercettavo dopo il Gran Premio, a volte lo aiutavo a sfilarsi la tuta tirandogli una manica, quando scendeva dal podio e se aveva una coppa fra le mani mi passava il  casco mentre ci incamminavamo verso il suo motorhome.

Dopo la gara, indipendentemente da come fosse andata, non gli piaceva avere gente attorno, ma mi sopportava

Eddie nel deserto del Mojave

Dopo la gara, indipendentemente da come fosse andata, introverso come era, non gli piaceva avere gente attorno ma mi sopportava. Parlavamo di corse, magari non di quella corsa, di sport in generale e di quanto avesse nostalgia per la California, che lui chiamava 'the real country'. Me la raccontava come la terra del sole perenne, mentre in Inghilterra, a Donington, in Germania ad Hockenheim o in Olanda ad Assen pioveva sempre. Quando un’estate mi invitò a casa sua, ad Upland, e piovve mi divertii a sfotterlo. Ma devo dire che la giornata successiva, quella sgroppata nel deserto del Mojave, lui in sella ad una Yamaha 250 2 tempi da cross, con me alla guida di una ben più pacifica 350 quattro tempi, fu magnifica. Uno dei più bei ricordi di quegli anni del mondiale, anche se caddi così tante volte da rimanere indolenzito per una settimana.

Eddie con Claudio Castiglioni in Cagiva

Per me Eddie era il miglior pilota che avessi mai conosciuto. Avevo visto le ultime stagioni di Ago, come tutti ero affascinato dalla simpatia e dall'arguzia sottile di Barry Sheene e naturalmente lo sbarco vincente di King Kenny in 500 mi lasciò allibito, così come la classe di Freddie Spencer che faceva sembrare tutto facile. Ma Lawson era un universo a parte. Ciò che mi colpiva sopra ogni cosa è che sembrava che non corresse per il titolo mondiale. Era come se, gareggiando, sfogasse una qualche energia interna che altrimenti sarebbe andata sprecata.

Forse non era, fra i tanti campioni dell'epoca, quello dotato del talento più cristallino, ma desiderava così fortemente vincere ed odiava così tanto perdere, da dedicare alle corse fino alla sua ultima stilla di energia.

Il suo soprannome preferito era Awesome Lawson. In italiano non rende, ma pronunciato all'americana suona benissimo

Eddie nel suo studio

Era quello che lui chiamava 'the need for speed'. La febbre che riempiva di multe – ticket chiamava sprezzante quei foglietti svolazzanti – il van con cui si spostava negli USA. Andare piano per lui non era una opzione contemplata. Ma una volta in sella, anche nei Gran Premi più convulsi, guidava in modo così pulito da non farti quasi accorgere di essere al limite. Per questo non cadeva mai tanto da meritarsi il soprannome di Steady Eddie e per questo era anche conosciuto come Awesome Lawson. In italiano non rende, ma pronunciato all'americana suona benissimo.  Sicuramente il soprannome, fra tutti, che gli piaceva di più. L'unico che a volte pareva stuzzicare il suo ego.

Così quel giorno a Kyalami, la sua ultima gara, invece di andare sotto al podio a salutare la vittoria di Kocinski ed il terzo titolo di Rainey mi ritrovai nella penombra del box di mattoni rossi della Cagiva.

Eddie e la sua Porsche, ovviamente preparata

Eddie stava in piedi su due fogli di giornale, già in borghese. Non aveva finito la gara e stava riponendo sua tuta, piegata, nel borsone. In silenzio alzò la testa, mi vide, e senza parlare continuò a riporre le sue cose. Gli stivali, poi i guanti. Quindi sistemò anche il casco in modo da poter chiudere la lunga cerniera senza sforzo. Prima di farlo si rialzò, come volesse dire qualcosa.

Avevo il taccuino infilato nella cinta dei pantaloni, dietro la schiena, come sempre e la Canon al collo. Non c'erano però fotografie da fare né appunti da prendere.

Mi sentii leggermente a disagio, come chi per caso apre un uscio e si ritrova ad assistere a qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.  Tuttavia non mi mossi.

Ho vinto abbastanza.

Ho perso abbastanza.

Mi sono fatto male abbastanza.

Ne ho abbastanza.

Lo disse scandendo ogni parola, lentamente, ma tutto d'un fiato, ed era un porco zio di frase da pronunciare e prima che il significato mi deflagrasse nella mente, Eddie Lawson si chinò, tirò la lampo, chiuse il borsone ed in un attimo mi sfilò passandomi affianco.

Rimasi lì qualche minuto, mentre lui salutava i meccanici uno ad uno.

Non gli andai dietro, questa volta. Lo seguii solo con lo sguardo fino a quando per un attimo la sua figura si stagliò controluce nella porta che dava sul paddock.

 

Nota dell'autore

Ho scritto questo pezzo non ricordo quanto tempo fa, ma ogni volta che me lo ritrovo sotto gli occhi risento sul petto e sulle braccia il calore del muretto di Kyalami e l'urlo delle 500 2 tempi.

E' riemerso dal Mac mentre cercavo qualcos'altro e da lì sono affiorate anche alcune delle foto scattate da Gigi Soldano quel fine settimana, in California, a casa di Eddie. Come relitti di un naufragio, portate a galla dalla corrente. Immagini tratte da vetustissimi rullini Kodak trasformate in digitale. Fantasmi. Che ricordo ho di un pilota come Lawson? Beh, la foto che apre questo servizio sfata molte leggende su di lui, non credete?

Eddie Lawson non è stato sufficientemente celebrato, almeno secondo me, durante la sua fantastica carriera. Ma forse non gliene è fregato molto. Quel che è certo è, per quanto mi riguarda, che ne ho una immagine molto diversa da quella pubblica. Forse merito di quel po' di attenzione che gli ho riservato quando era un rookie del motomondiale. By the way: se la meritava.

 

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