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6 Grande Italia: emozioniamoci!

Quaranta anni di motociclismo: dopo Agostini, Ferrari. Poi Lucchinelli e Uncini. Oggi con Rossi, Dovizioso, Iannone, Petrucci, Morbidelli e Bagnaia in pista torna l'era italiana in MotoGP

6 Grande Italia: emozioniamoci!

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Abbiamo ricominciato a tifare un italiano nel 1979, con Virginio Ferrari. Un bellissimo duello con Kenny Roberts terminato troppo presto con l'incidente di Le Mans.
Eravamo orfani, agonisticamente parlando, di Giacomo Agostini e del suo ultimo titolo vinto nel 1975.

Kenny ci piaceva da pazzi e ci piaceva il suo modo di fare, la sua ignoranza agonistica, non gli abbiamo mai tifato contro, ma Virginio, con quella vittoria ad Assen davanti a Barry Sheene ci aveva conquistato.

Fu un anno bellissimo, perché Ferrari era (ed è) un uomo splendido, e se di King Kenny abbiamo detto, anche Barry era magnifico.
Divertente, furbo, uno che scartava una gomma per darla a bere agli avversari e poi la ritirava fuori il giorno della gara.

Virginio Ferrari fu l'apripista, poi arrivarono in rapida successione, Marco Lucchinelli e Franco Uncini. Bam, bam, due titoli in successione nel 1981 e 1982 con due piloti che più diversi non si può.
Marco, un pazzo scatenato, ma anche morbido, dentro. Franco, un violinista, più duro di quanto facessero intendere i suoi modi sempre gentili.

Interruppero la dominazione americana che durò fino al 1993, grazie all'avanguardia australiana, Wayne Gardner.

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Ci mancarono le corse in macchina per andare a Sanremo con Lucky, due ave Maria e tre Padre Nostro ogni curva, le sue chiacchiere, da cantante a cantante ("io la volevo nera la mia donna vera"), con Bobby Solo che era venuto da Roma in Maggiolino Volkswagen, e con Franco una sciata terminata con due costole rotte (mie) "siamo o non siamo piloti, si scende anche con la nebbia!".

Assenti gli italiani, perlomeno vincenti, abbiamo gioito senza distinzione, per californiani e texani, e quando è arrivato Freddie dalla Louisiana passavamo dalla 'morte nera' - il soprannome del suo lussuoso motor home - a quello meno appariscente di Eddie Lawson stupendoci ogni volta di come due ragazzi così diversi potessero entrambi appassionarci così visceralmente.

Li tifavamo entrambi, così ogni vittoria di uno dei due conteneva l'amarezza di una sconfitta.
Pensiamo che solo l'amore, in qualche modo, assomigli a questo sentimento.

Così ci consolavamo parlando con Giacomo Agostini, che all'epoca gestiva il team Marlboro.
Ci mancava un italiano, mannaggia.

In classe regina, in 500, ovviamente, perché di italiani vincenti nelle altre cilindrate ne avevamo a iosa.
Quando ci approdò Luca Cadalora fu una illusione. Ma è vero anche che non ebbe mai il materiale di Mick Doohan. Luca era furbo, ma Mick uno schiacciasassi.

Poi, finalmente, ci fu lo sbarco vincente di Max Biaggi nel 1998 e il ritorno di Loris Capirossi, coinciso con quello di Valentino Rossi nel 2000 e tutto torno ad essere maledettamente divertente. Perché se metti tre inglesi assieme avrai un pub, tre irlandesi una rissa e tre italiani una festa. Beh, un po' anche una festa rissosa.

Non era come tifare, indifferentemente, per gli americani, perché noi italiani siamo gelosi. Ma ci siamo divertiti abbestia, in quel periodo. E poco conta che i titoli, poi, li abbia vinti solo Vale: il bello di quegli anni era la battaglia. Ogni benedetta domenica di gara.

Da allora ad oggi sono passati un sacco di anni, ed è da un bel po' che i piloti non hanno la nostra stessa età.
Il bello del motociclismo, però, è che a seguirlo si rimane giovani. Anzi giovanissimi, perché la moto si guida - e si tifa - con tutto il corpo. E' emozione in movimento.

Forse è solo nostalgia, ma stanotte, qui in Qatar, vedendo Rossi, Dovizioso, Iannone, Petrucci, Morbidelli e Bagnaia, vicini per la foto di rito ci ha percorso un brivido lungo la schiena.
Sei personaggi così diversi l'uno dall'altro, nemmeno un regista sarebbe stato capace di metterli insieme.

Sarà un bel film, questo motomondiale.
Non vediamo l'ora di raccontarvelo.

 

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