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Picco: “Alla Dakar conta più l’esperienza che il polso”

Il pilota vicentino riflette sulla prima metà di gara: “È un’edizione decisamente impegnativa. Il percorso è sempre più tecnico e portato all’enduro estremo. I tempi sono tirati e con il freddo e la pioggia la difficoltà aumenta. Qui, essere smanettoni non basta”

Dakar: Picco: “Alla Dakar conta più l’esperienza che il polso”

Con l’arrivo a Riyadh si è conclusa la prima settimana della Dakar 2023. Una prima parte di gara in cui non sono mancati i colpi di scena, per via del maltempo e della precoce uscita di scena protagonisti illustri come Sam Sunderland e Ricky Brabec. Anche tra gli italiani non sono mancate le sorprese, con il ritiro di Tommaso Montanari e dei due alfieri Fantic, Tiziano Internò e Alex Salvini. Ma al giro di boa della maratona, la Casa nata a Barzago può ancora contare sulla presenza dell’inossidabile Franco Picco, che occupa la 74esima posizione della classifica generale, dopo l’ottava tappa. Ed è proprio dal veterano della Dakar che, in questa giornata di riposo, ci siamo fatti raccontare le difficoltà di questa 45esima edizione, che segna la 29esima partecipazione del vicentino al più celebre dei Rally Raid.

Franco, come è andata questa prima settimana di gara?
“Senza accorgercene, abbiamo fatto otto tappe e ce ne mancano sei, quindi abbiamo già passato la metà ed è una buona cosa. Il fatto che sia qui significa che tutto sta funzionando, anche se c’è stato un mezzo problemino per la squadra, perché sono rimasto solo. Ora avrò un po’ più di responsabilità di arrivare in fondo, però le Dakar sono così. Ne ho fatte tante e cercherò di portare in fondo anche questa”.

Avresti mai immaginato di restare l'unico portacolori della squadra?
“Questo è il mio secondo anno con Fantic e anche l’anno scorso ero da solo. Da lì è stata fatta la scelta di partire in tre e cercare di arrivare tutti in fondo. Mi dispiace che uno per un problema fisico e l’altro per un problema tecnico mi hanno lasciato solo, con un po’ più di responsabilità. Effettivamente, è una di quelle gare in cui vale più l’esperienza che il polso, quindi, potevo quasi essere considerato il vecchietto da mettere in pensione, invece sono quello che arriverà in fondo, spero. In un certo senso è una soddisfazione in più, ma anche una responsabilità in più”.

Come ti sei trovato con i tuoi compagni di team?
“Tra italiani, proviamo ad aiutarci. Ieri si è fermato a darmi una mano anche Ottavio Missoni. Io quando posso gli do sempre dei consigli o delle dritte e loro mi seguono perché magari gli apro delle traiettorie migliori. È uno scambio. Con i miei compagni di squadra l’idea era questa, però sono partiti forse più carichi, erano davanti ed è capitato l’imprevedibile. Per Tiziano la caduta, in cui si è lussato entrambe le spalle. Ha tentato di ripartire, ma secondo me era impossibile: per quanto ti riposi e ti medichino, non puoi resistere. Alex invece l’ha presa sicuramente un po’ alla gran carica e i problemi che ha avuto sono capitati anche un po’ per via della sua condotta abbastanza esuberante. Qui bisogna prima fare esperienza e poi smanettare, perché, secondo la mia esperienza, i problemi tecnici che possono capitare dipendono anche da come prepari e tieni calma la moto. Poi abbiamo avuto grossissimi problemi con il meteo e, tra freddo e pioggia, anch’io ho avuto problemi con l’impianto elettrico, ma appena mi accorgo che c’è qualcosa, mi fermo, riparo e trovo una soluzione. Forse Alex cercava di avere un po’ più di margine di risultato e si è dovuto fermare in due occasioni, finendo fuori gara”.

In più, il percorso di quest’anno sembra essere particolarmente duro. Quali sono state le insidie più grandi di questa prima parte della Dakar?
“Il percorso è sempre più tecnico e portato all’enduro estremo. I tempi sono tirati. Si parte molto presto al mattino. Si fanno tanti chilometri anche di trasferimento, che ti portano via ore, e con il freddo e la pioggia che abbiamo incontrato aumenta la difficoltà. Tutto questo insieme ha portato a un’edizione decisamente impegnativa e lo si vede anche nel settore Auto, dove c’è tra i top c’è solo Al-Attiyah. Che sia perché è la 45esima edizione, o perché la precedente era stata più soft ed erano arrivati in tanti, l’organizzazione ha deciso di renderla più impegnativa. Tanti fattori come il meteo comunque non sono programmabili, quindi è questione di fortuna e di esperienza, perché bisogna immaginare e tenersi pronti per quello che può essere. Sicuramente qui l’esperienza paga molto”.

Due settimane nel deserto, tra percorsi massacranti e spostamenti di centinaia di chilometri, per un pilota sono più estenuanti a livello fisico o mentale?
“Tutto l’insieme: fisico, mentale e meccanico. Perché fare mille chilometri al giorno sotto la pioggia, sulla sabbia, l’asfalto, andando veloce perché cerchi di restare nei tempi, il mezzo ne risente, quindi devi organizzarti. L’esperienza te lo dice e ti aiuta a trovare la soluzione, mentre essere uno smanettone a volte non basta. Per assurdo, il vincitore dell’anno scorso è il primo pilota che si è fermato quest’anno. Può capitare. Bisogna essere concentrati e stare attenti a tutto. A me viene automatico, ma un pilota alla prima esperienza fa fatica a farlo e a capirlo, perché bisogna provarlo”.

Cosa rende così speciale la gara da spingere un pilota a imbarcarsi nella sua 29esima Dakar?
“Ha un fascino ammaliante e l’organizzazione maestosa invoglia sempre. Per dire, un mattino, durante un trasferimento, mi sono fermato al bar di un distributore a prendere un caffè. Faceva freddissimo e mi si è avvicinato un francese che mi dice: ‘siamo pazzi a fare queste cose. Che freddo! Questa è la mia prima esperienza e non voglio più saperne’ e gli ho detto: ‘non preoccuparti, alla mia prima Dakar ho detto anch’io che se arrivavo in fondo non volevo più saperne, ma poi quando arrivi cominci a dire: per il freddo mi vesto così, la moto la sistemo cosà e ogni anno il problema si ripresenta’. Tra un po’ mi fermeranno, perché io altrimenti continuerei (ride)”.

Sicuramente, tante cose sono cambiate rispetto ad allora. Questo ad esempio è il quarto anno consecutivo in cui la gara si corre interamente in Arabia Saudita e spesso si sente dire che si è un po’ perso lo spirito di un tempo. Sei d’accordo?
“Mah, si può discutere. Io posso solo dire che ci sono delle problematiche organizzative che non sono indifferenti. Per essere così maestosa come la stanno facendo, non può essere una carovana itinerante che continua a cambiare tappa ogni giorno. Quindi, le tappe ad anello sono un po’ brutte dal lato sportivo, ma sono quasi obbligatorie per l’organizzazione a livello logistico. È uno spirito opposto ad esempio a quello del 1992, quando la gara è partita da Parigi ed è finita a Città del Capo. La gara si chiama Dakar, ma non può essere la Dakar di una volta. È adeguata ai tempi di adesso, con lo spirito e la voglia di dare i risultati e l’immagine che sta dando adesso. Secondo me, il ritorno di immagine che ha adesso è nettamente superiore rispetto a prima. Quindi, una ragione c’è”.

Pronto per la ripartenza, dopo una giornata di riposo?
“Questo giorno di riposo ci voleva, anche se a volte è quasi meglio di no. A volte parti e vai quasi di slancio. Adesso il riposarsi può essere un po’ ‘fastidioso’ perché ti rilassi e ti deconcentri e dopo si riparte. Ma per quanto riguarda la fatica non fa certamente male mangiare, riposarsi e farsi dare una bella ‘stirata’ visto che noi, come squadra, abbiamo portato anche la fisioterapista. Domani bisognerà riprendere il ritmo perché sarà un’altra tappa bella impegnativa, e le ultime cinque giornate sembra che saranno più corte ma ancora più difficili. Se non altro come speciali. Vedremo come sarà”.


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