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Mercato Moto: la Cina surclasserà la produzione europea?

Nel prossimo futuro il mercato generalista delle moto sarà in mano all’estremo Oriente. Se neutralizzare il processo appare impensabile, sicuramente ci sono degli strumenti per arginarlo e non “soccombere”. Ecco alcune idee

Moto - News: Mercato Moto: la Cina surclasserà la produzione europea?

di Leslie Scazzola

Eicma 2022 è stato caratterizzato dall’ondata di novità portate sotto i riflettori dalle aziende cinesi. La tendenza è chiara, ed è ormai chiaro che gran parte delle dominatrici del mercato del prossimo futuro arriveranno proprio dall’Estremo Oriente. In ottica futura le case europee (e quelle giapponesi, seppure necessitino di una trattazione a sé stante) sono chiamate ad organizzare la controffensiva. Come? Quale? In questo testo proviamo a proporre alcune strategie che le case occidentali potrebbero utilizzare per il futuro in funzione di un approccio strutturale a lunga visione.  

La storia in breve: da dove arriva l’industria cinese?

Deng Xiaoping, ex-leader della Repubblica Popolare Cinese, dichiarò a più riprese durante la sua presidenza (1978 – 1992) di voler fare della Cina la “fabbrica del Mondo”, creando di fatto le infrastrutture industriali capaci di attirare nel Paese i capitali mondiali. E così è avvenuto praticamente in ogni settore, seppure al prezzo di stipendi tra i più bassi di quelli dei paesi industrializzati e, in generale, scarsi diritti per i lavoratori.  Fu proprio la manodopera a basso costo e le conseguenti opportunità che ne derivavano per i paesi che spostarono lì la loro produzione a spingere l’Occidente a far entrare la Cina del WTO (World Trade Organization, ovvero l’organizzazione mondiale delle relazioni commerciali) immaginando di poter sfruttare al meglio il momento. L’idea comune era quella che, una volta integratisi nel sistema di commercio mondiale, la popolazione cinese avrebbe chiesto maggiori diritti e più tutele per i lavoratori, annullando di fatto il vantaggio nell’esportazione. Così non è stato, e lo stiamo vivendo nel quotidiano: forti dei risultati economici ottenuti negli ultimi 40anni i cinesi sembrano restare ancor oggi fortemente legati al loro sistema politico e sociale che gli consente di crescere a ritmi vertiginosi assolutamente inimmaginabili per le grandi democrazie occidentali. In sintesi, dopo aver delocalizzato la produzione, esportando attraverso la Via della Seta tecnologia e competenze, oggi molte aziende occidentali si trovano dinnanzi un competitor estremamente minaccioso per costi e capacità produttive.

Qualità: siamo ancora leader?

Dipende. Bisogna ad esempio valutare il segmento di riferimento: se consideriamo le piccole cilindrate, da 125 cc fino a 500cc, la risposta è semplicemente negativa. Fate un salto in una concessionaria CF Moto, Voge oppure Zontes e vi accorgerete che il dispregiativo “cinesata è oramai quanto meno fuori luogo. Negli ultimi anni le piccole moto provenienti dall’estremo Oriente hanno fatto dei passi in avanti enormi in termini di contenuti e qualità percepita, tanto da avere poco o nulla da invidiare alle creazioni a noi più note. Se poi si considera che molte aziende europee e giapponesi realizzano (o fanno realizzare) i loro prodotti in paesi considerati in via di sviluppo, viene spesso da chiedersi a cosa sia realmente riconducibile la differenza di prezzo al pubblico. Per quel che riguarda le medie e le grosse cilindrate, invece, il discorso si ribalta totalmente, perché in tema di contenuti (si pensi ad esempio alla sofisticazione elettronica) al momento l’ago della bilancia pende fortemente a favore delle aziende a noi più note, e questo vale anche per il design. In questo senso, l’elettrico sarà una sfida tutta da giocare, ma è un altro – spinoso - argomento.

Ecco quindi un elenco - non esaustivo - su quelli che potrebbero essere gli argomenti sui quali l’Europa (e il Giappone) della moto saranno chiamati a giocarsi la sfida del prossimo futuro. E in palio c’è ben di più di qualche risibile quota di mercato.

- Focus sul Marchio: con tutto il rispetto per le aziende che citiamo, al momento comprare una Benelli, una Voge, una CFMoto o qualche altra moto di pari categoria made in Cina è sostanzialmente la stessa cosa. Non ci riferiamo ai contenuti tecnici o alla qualità, bensì all’aspetto esperienziale dell’acquisto, da noi molto sentito. In questo senso, comprando una Ducati si entra di diritto in un club esclusivo fatto di eventi, merchandising e attività legate al Brand che rendono il cliente a tutti gli effetti parte di un Gruppo. La stessa avviene per BMW e comincia ad essere percepibile anche per Aprilia e poche altre aziende. Investire con forza sullo sviluppo di iniziative collaterali al solo acquisto della moto rafforza la brand identity, facendo percepire il marchio come qualcosa di realmente differente, esclusivo, capace di attirare clienti più esigenti. Il coinvolgimento totale con il marchio aumenta esponenzialmente la fedeltà del cliente, il quale arriva spesso a riconoscersi “suo” brand senza lasciarsi attirare da altri marchi, proprio perché filosoficamente distanti da lui. Se coltivato, questo gap delle aziende più note rispetto alle realtà appena arrivate sul mercato sarà sempre più importante.

- Sub branding si, estensioni di linea no: la guerra dei prezzi contro aziende - innegabilmente - più competitive nei costi di produzione è un gioco al massacro che conduce al fallimento. È impensabile scendere nella arena del prezzo al ribasso partendo da uno svantaggio pesante qual è il costo produttivo, e anzi il rischio è quello di depauperare quanto costruito negli anni in termini di identità del marchio. Nel prossimo futuro sarà sempre più importante mantenere l’eccellenza qualitativa dei prodotti elevandola quasi a marchio di fabbrica, anche a costo di lasciare alcune fette di mercato totalmente in mano alla concorrenza. Un esempio concreto: Aprilia con la sua Tuareg 660 ha scelto di non scendere a compromessi in termini di qualità e raffinatezza tecnologica chiamandosi fuori dalla lotta al prezzo in cui sono coinvolti altri costruttori nel segmento delle crossover di media cilindrata. Semplicemente la Casa di Noale ha adottato la strategia riteniamo più corretta, ovvero mantenere uno standard elevato dei suoi contenuti, con listini prezzo ben al di sopra a quelli delle concorrenti impegnate nel medesimo segmento, ritagliandosi così il ruolo di benchmark tecnologico del segmento stesso. Punto. I vertici di Noale hanno deciso scientamente di non puntare alla leadership nei numeri di vendita mantenendo intatta la filosofia del Brand, e i riscontri sono stati buoni. Un esempio di estensione di linea potrebbe essere quello di una possibile Tuareg 660 priva di contenuti di spessore, con sospensioni di bassa qualità e tecnologia basica, con l’obiettivo di raggranellare qualche numero in più scendendo nell’arena della lotta al prezzo basso. Funzionerebbe? No, anzi, andrebbe a cannibalizzare qualche numero della Tuareg come la conosciamo oggi e - soprattutto – a sbiadire l’immagine che la Casa sta faticosamente creando attorno a questa moto, che è appunto quella del top della categoria. In altre parole, la crossover di Noale farà meno numeri di una qualsiasi concorrente tecnicamente meno esclusiva ma li concretizzerà (immaginiamo) con margini superiori, e soprattutto portando fieno in cascina al concetto hi-tech del Marchio. Piuttosto, se Piaggio volesse monetizzare al meglio l’investimento fatto sulla Tuareg 660 potrebbe farlo veicolando la sua piattaforma tecnica attraverso sì una versione più basica della moto ma proponendola con un altro brand (Gilera?) con sostanziali differenze di immagine e possibilmente un’altra rete vendita. Così facendo potrebbe sì decidere di scontrarsi sul fattore prezzo con altre case, lasciando però al contempo inalterato il fattore premium di Aprilia.

Non è un caso che Ducati abbia fatto proprio così con Scrambler. Hanno creato un sub brand che ormai vive in maniera a sé stante, con flagship dedicati, merchandising e tutto il resto. Alle Ducati “classiche” resta il compito di salvaguardare l’identità tecnologica e prestazionale del Marchio, mentre Scrambler ha il compito di proporsi al pubblico più generalista, fatto di nuovi utenti, motociclisti di ritorno oppure chi della moto fa un utilizzo quotidiano in città. Se ci pensate è la stessa operazione – seppure inversa - portata avanti da Citroen con il brand DS, che senza snaturare il concetto originario di “auto alla portata di tutti” ha di fatto ampliato l’offerta affacciandosi al segmento premium.

Con una offerta così ampia come quella che si sta prefigurando sul mercato, nel prossimo futuro sarà impossibile riuscire a mantenere un solo marchio valido per l’intera offerta di prodotti, spaziando dalle supersportive ultratecnologiche fino agli scooter da città. Il rischio è quello di un marchio che via via perderà appeal, mischiandosi nel mare magnum di piccoli e grandi brand presenti nei segmenti meno tecnologicamente distintivi fino a farsi trascinare nella battaglia (comunque impari) sui prezzi. E poco conterà allestire sedi produttive sull’Isola di Formosa, in India o chissà dove, sarà una battaglia persa in partenza.

- Investire sulle reti vendita Auto: con tutta la simpatia possibile per il piccolo concessionario locale, considerati gli spunti di cui sopra immaginiamo una rete distributiva nel prossimo futuro molto diversa. Le piccole strutture a gestione familiare dovranno per forza evolversi nelle dimensioni, nel personale e nei servizi offerti, altrimenti correranno il rischio di essere soppiantate dai grandi gruppi che fagociteranno gran parte della rete commerciale. È un processo già avvenuto nella storia recente del mondo auto, e che di fatto ha cambiato nelle fondamenta il tessuto imprenditoriale legato alla distribuzione automotive. Storicamente le moto seguono il settore auto con un ritardo di 10 massimo 20 anni, ed è stato così per tutte le novità introdotte nel mondo a 4 ruote. Non si tratta di opinioni e a nulla argomentazioni quali “sono settori differenti” o “la moto si acquista per passione”. È la stessa cosa, e chi lo capirà per primo godrà di un vantaggio concorrenziale notevole. Qualche esempio? Grazie allo stretto legame con il mondo Volkswagen/Audi, ormai la stragrande maggioranza dei concessionari Ducati rientra sotto le insegne di gruppi auto. Sono rimasti pochi i concessionari di proprietà di un singolo imprenditore/lavoratore, considerate le esigenze sempre maggiori in termini di volumi, standard dei locali, esposizioni economiche e investimenti richiesti dalle Case. Legare il business ai gruppi auto significa collaborare con strutture più modernamente organizzate, forti di maggiori capitali, con apparati vendita e post-vendita tendenzialmente più efficienti e pronti ad assecondare le molteplici esigenze in termini di procedure e gestione del cliente da parte delle fabbriche. Pensate alla gestione della presenza digitale delle concessionarie, alle iniziative online e offline, alla creazione e gestione dei lead, al post-vendita, alle azioni di up-selling e via dicendo. Con l’importanza sempre maggiore che questi elementi avranno per fare la differenza sul mercato è difficile pensare che una piccola struttura familiare possa assecondare tali esigenze secondo le richieste delle case costruttrici. Anche Triumph ha capito da tempo l’importanza di legarsi al mondo auto (Triumph Treviso è sotto le insegne di un importante distributore locale di autovetture) e nel prossimo futuro saranno sempre di più le “commistioni” tra i due settori.

Il vantaggio competitivo nei confronti delle aziende asiatiche che si affacciano al nostro mercato in questo caso è molto elevato. La stragrande maggioranza di questi marchi veicola oggi i propri prodotti in Europa affidandosi a strutture commerciali, spesso multibrand, che non hanno la “forza” o la struttura per organizzare al meglio il fattore esperienziale di acquisto. A questo si aggiunge il fatto che la rete vendita dei prodotti (i concessionari) è oggi affidata per lo più di piccoli concessionari che decidono di investire su un brand dalle pretese oggi limitate sperando di cavalcare l’onda di una potenziale futura esplosione. Con il massimo rispetto per queste attività, lo ripetiamo, spesso parliamo di soggetti commerciali con capacità di investimento ben differenti da quelle dei grandi gruppi auto, con tutto ciò che ne consegue. Quest’ultima considerazione vale fintanto che un colosso cinese non firmerà un accordo di distribuzione con un grande gruppo automotive (ad esempio Koelliker, solo per citare uno dei più noti) visto che in quel caso gli equilibri verrebbero stravolti in un istante.

Fidelizzazione: tante sono le iniziative oggi percorribili per legare a doppio filo il cliente ad un marchio. Pensiamo a servizi aggiuntivi quali l’estensione di garanzia, i pacchetti di manutenzione programmata, i prodotti finanziari di vario tipo, i patti di riacquisto, il noleggio, i leasing e molto altro. Tutti strumenti ancor oggi poco sviluppati, sui quali spesso le case (o talvolta i loro addirittura i responsabili commerciali) non spingono minimamente, spronando i propri concessionari a stracciare sui prezzi per competere con la concorrenza. Invece di valutare questi strumenti come investimenti per il futuro dell’attività, quindi come valore aggiunto al prodotto, vengono visti alla stregua di fattori inquinanti della trattativa, quasi delle perdite di tempo. Nel mondo auto, invece, già da parecchi anni si spinge nell’offerta di prodotti collaterali, avendo ben chiaro il fatto che rivedere il cliente in concessionaria significa avere maggiori opportunità per vendere prodotti, servizi, ricambi, accessori, abbigliamento, merchandising oppure, perché no, gettare le basi per il prossimo acquisto.

Voi come la pensate? Che idea vi siete fatti della “invasione cinese” e del futuro del mercato due ruote?

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