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Addio Hubert Auriol, l'Africain, nessuno ci toglierà il tuo sorriso

Se ne è andato uno degli eroi della Parigi-Dakar di Thierry Sabine. Vittorioso in moto ed in auto con BMW e Mitsubishi, vicino al trionfo nel 1987 con la Cagiva. Pilota, organizzatore, era da tempo in ospedale per Covid

Dakar: Addio Hubert Auriol, l'Africain, nessuno ci toglierà il tuo sorriso

Chissà perché quando penso a Hubert mi viene sempre in mente quel Rally dei Faraoni, non ricordo l’anno, in cui lo trovammo - eravamo in macchina insieme, io e Gigi Soldano - lungo la pista.

Era appena caduto fratturandosi malamente una spalla. Non c’era niente altro da fare che aiutarlo a rialzarsi, farlo entrare in macchina e riaccompagnarlo al bivacco.

Si sistemò alla bell’è meglio sul sedile posteriore, tenendosi il braccio e la spalla che doveva fargli un male d’inferno. Eravamo su una pista, con tutti gli inevitabili scossoni che ne conseguono e io, ogni tanto, gettavo un occhio allo specchietto retrovisore, scusandomi, ma ne ricavavo solo uno dei suoi meravigliosi sorrisi per i quali la Durban’s avrebbe dovuto sponsorizzarlo a vita.

Se ne è andato oggi Hubert Auriol, l’Africano, il Re della Dakar. L’uomo che fu in grado di conquistare il titolo sia con le moto che con le auto. Sessantotto anni, Hubert non era più ormai da tempo il Superman che aveva vinto la storica gara africana sia con le due che con le quattro ruote, assieme a Stephane Peterhansel e Joan Roma. Prima le affermazioni in moto nel 1981 e nel 1983, alla guida della BMW. Poi ancora due piazzamenti con la Cagiva nel 1985 e nel 1987 (anno nel quale si dovette ritirare ad una giornata dalla fine per la frattura di entrambe le caviglie quando ormai la sua vittoria era ormai certa), prima di passare definitivamente alle auto. Nel 1992 arrivò anche l’affermazione con la Mitsubishi.

L’Africain, un Mito, ma anche un ragazzo sempre gentile, disponibilissimo, anche quando arrivava dopo 600 chilometri di speciale, imbiancato dal fesh-fesh. Con quel suo fisicaccio alla Christofer Reeves. Un Nembo Kid delle sabbie. Sorrideva ed io pensavo: ma da dove gli viene tutta quella forza?

Rideva anche quel gennaio del 1987 quando si vide arrivare nella sua stanza di ospedale, a Parigi, Claudio Castiglioni ed un manipolo di noi giornalisti, trascinati dal boss della Cagiva, bottiglione di Champagne in mano. Brindavamo al re, naturalmente, perché cosa importava che non avesse vinto con la moto italiana quando la aveva portata comunque alla fine tappa, scortato dall’amico-avversario Cyril Neveu con una tibia che fuoriusciva dallo stivale?

Fu allora che vidi piangere, per la prima volta, Hubert Auriol, ma non so quanto fosse per il dolore per la ferita o per non aver potuto concludere la sua galoppata trionfale sul Lago Rosa.

Un altro ricordo: Hubert e Thierry Sabine a colloquio, con uno dei meravigliosi sfondi che solo il deserto è in grado di regalare. Entrambi pieni di fascino come due attori.

Nello scorso novembre Hubert, nato nel ’52 ad Addis Abeba in Etiopia, era stato ricoverato per Covid a Parigi, già sofferente per altre patologie. E chissà in che stato aveva appreso la notizia della scomparsa della moglie, Caroline, vittima di un incidente stradale il 3 dicembre scorso.

Chissà, forse è stato allora che lui, l’invincibile, ha preso atto che non gli restava altro che proseguire nel suo cammino, sempre dritto, per la pista principale.

Lo vedo ora che scende, impolverato, dalla moto o che sguscia fuori dall’abitacolo della Mitsu, via il casco, un sorriso. Sei al bivacco, Hubert, aspettaci. Arriviamo. Prima o poi.

 

Foto: ©Gigi Soldano PhotoMilagro

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