LA STORIA Solo il fuoco ferma Zacchetti

"Non volevo ritirarmi. Stanchezza, disidratazione, cadute. E poi la moto si è incendiata"

LA STORIA Solo il fuoco ferma Zacchetti

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La Dakar, anche ora che si corre in Sudamerica non è mai uno scherzo. Lo sanno bene tutti i partecipanti che non riescono a terminarla.

Dopo quanto accaduto ieri allo sfortunato motociclista polacco Michal Hernik verrebbe da dire che al 45enne Cesare Zacchetti è andata bene. Potrà sempre ritentare il prossimo anno.

Questa è la testimonianza, così come l'ha raccontata lui stesso sul suo blog a proposito del suo ritiro. Il suo blog è raggiungibile cliccando QUI.


Se mi avessero legnato forse starei meglio.

Ora mi trovo al bivacco di Chilecito, tra la polvere e il caldo soffocante.

L’ultima immagine che ho impressa è la moto che va a fuoco. Il fumo acre mi brucia gola e occhi, e io che non posso far nulla se non allontanarmi da lì e aspettare il balai.

Sono a pezzi, ma so che ho fatto tutto il possibile.

Sapevo che la Speciale tra Villa Carlos Paz e San Juan sarebbe stata una delle prove più difficili dell’intera gara e che avrei dovuto stringere i denti.

Ho cominciato bene, sorpassando e cercando di portarmi avanti per evitare la polvere, poi al 75° km sono finito fuori strada. Da solo non riuscivo a scastrare la moto dai cespugli, poi tre ragazzi mi hanno aiutato. A quel punto, gli altri riders mi avevano ripreso ed era tutto da rifare.

Ho iniziato a tirare al massimo, con sorpassi ai 150 Km/h completamente alla cieca, dato il muro di polvere, fino a quando cercando di andar via un quad, sono andato dritto quando la strada girava a destra.

Un bel volo, ho rotto il casco e un dente, e da qui sono iniziati tutti i problemi.

Stanchezza, disidratazione, un caldo sfiancante e la riserva d’acqua che stava finendo. Gli strumenti si erano spenti, non mi trovavo, non capivo esattamente dove fossi.

Cesare ZacchettiAncora una caduta sul fesh fesh e la moto non si accendeva più. Panico. Ero completamente nel pallone, non sapevo come farla ripartire.

Avevo finito l’acqua, e non avevo la forza per smontare il paramotore e accedere al serbatoio. Oliveira mi ha visto in difficoltà, mi ha dato dei viveri e ha chiamato i soccorsi, ma non volevo ritirarmi. Grazie ad un rider svedese ho capito quale fosse il problema, ho riacceso la moto e potevo ripartire. Decido comunque di far passare un po’ di tempo e aspettare il fresco.

Ero al 407° km e il difficile finiva al 421° km. Ce l’avevo quasi fatta.

Quando ho ripreso la strada, il tracciato era completamente distrutto dalle linee delle macchine e a ogni curva finivo nelle carreggie cadendo. Così, temendo di essere investito dagli altri, ho deciso di fare quegli ultimi 14 km nel bush, conscio dei rischi che avrei corso.

A ogni chilometro mi fermavo per pulire la moto e per eliminare le sterpaglie, ma ad un certo punto, finendo tra i cespugli fitti, la moto ha preso fuoco. Fine dei giochi. Mancavano solo due km alla pista principale. Gli ultimi 30 km li ho fatti, in 7 ore, col balai. Poi un elicottero ha portato me e altri a San Juan, dove un aereo ci ha condotti a Chilecito.

Voglio ringraziare tutte le persone e tutti i rider che mi hanno aiutato. Son stati momenti molto difficili, purtroppo la vita non sempre riserva storie a lieto fine. Quello che ho imparato negli anni è che gli errori, le cadute e le batoste ci stanno e fanno parte del gioco. Ciò che conta è rialzarsi e andare avanti.


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