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MotoGP, Marquez: la velocità nasce in casa

Parla il padre Julià: "famiglia unita dalla fiducia e agonismo"

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Marc e Alex Marquez sono fratelli "veri". Ad unirli non è solo la passione per le due ruote, ma un vincolo simbiotico, immanente, che va al di là del sangue. In spagnolo, fratello si dice "hermano", una parola la cui etimologia rimanda qualcosa di naturale, genuino, autentico. In un ambiente dove regna la spietata competizione, i due enfants terribles catalani dimostrano come ci sia ancora spazio per la famiglia. Ne parla il padre, Julià.

"A casa mia, la famiglia è importante – racconta – Noi facciamo le cose insieme, anche con mia moglie. Stiamo uniti il più possibile. Da giovane mi piaceva andare alle feste, stare con gli amici, ma ora sto attraversando una tappa diversa e do la precedenza all'unione in casa".

Vivono ancora in casa entrambi?

"Si, non perché glielo abbia chiesto io. Ma il loro tifoso numero uno è il nonno, perché teneva i ragazzi quando io e mia moglie eravamo al lavoro. Una volta non si voleva operare, e Marc lo ha convinto dicendogli 'nonno, se ti operi vinco il mondiale'. E lo ha fatto, era l'anno del titolo della 125".

Come sono cresciuti? Si facevano i dispetti o andavano d'accordo?

"Da piccoli hanno sempre giocato insieme, ma Marc è sempre stato il 'capo' perché è il più grande. C'è anche un po' di sana rivalità ma sono molto uniti. Soprattutto, si fidano l'uno dell'altro".

Spesso i genitori nel motomondiale vengono tacciati di intrusività. Come ti comporti tu solitamente?

"Alex ha 17 anni, Marc 20, è normale che abbiano le loro cose da fare. Non voglio mettergli troppi limiti, perché altrimenti come fanno a diventare uomini? Marc è il più grande e viaggia con la squadra, io con Alex. Ma dopo anche il piccolo va al suo box e comincia il suo lavoro. Se la squadra è professionale, non c'è bisogno che io gli dica cosa fare. Mi basta stargli vicino nei box. Ascolto e sto zitto".

Non hai mai paura per la loro incolumità?

"Ho molta paura, perché è uno sport pericoloso. Quando si cade, non è come fare un incidente in macchina. Il pilota cade a terra e si fa male. Io ho 50 anni, ho avuto una vita piena, non mi spaventa un infortunio o la morte. Ma se un giovane si fa male rischia di compromettere la sua vita. Mi dispiace quando qualsiasi giovane si fa male, non solo i miei figli".

E non hai mai pensato di orientarli ad uno sport diverso?

"Quante famiglie hanno disgrazie lontano dai circuiti? Può capitare qualsiasi cosa. Qui il rischio è più alto, ma non mi piacerebbe vivere con la paura."

Come iniziò il tutto?

"Sono sempre stato appassionato di moto, anche se non giravo in pista. Sono andato a vedere gare ad Assen, Donington, Jerez. Da quando mi sono sposato le ho sempre guardate al bar. Dopo che è nato Marc, sono andato con mia moglie a seguire i mondiali di motocross ed enduro con il nostro motoclub. A Marc piacevano molto, guardava le gare col ciuccio e non diceva niente. Dopo le replicava sulla sua macchina a pedali. Poi mi ha chiesto una moto a benzina per la befana. Non gli ho mai messo io queste idee in testa".

Com'è cresciuto sportivamente?

"Abbiamo sempre fatto le prove nel fine settimana. Gli ho sempre detto che da lunedì a venerdì i genitori lavorano ed i figli vanno a scuola. Quando era piccolo correva con moto di seconda mano e si lamentava che gli altri bambini avevano moto nuove. Gli ha fatto bene, perché ha imparato ad essere veloce come gli altri superando le difficoltà".

Ed ora, com'è come persona?

"Marc è sempre uguale, non pensa al titolo. Sa che può vincere o perdere. È felice quando va in moto, quando è in pista. Tutto qui".

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