Motegi, il Gran Premio della paura

Honda e Dorna hanno portato il paddock in Giappone contro la sua volontà

Ne abbiamo viste di cose in più di trenta anni di Gran Premi. Abbiamo visto i piloti protestare, e perdere, per avere qualche centinaio di balle di paglia di protezione in più nei circuiti più pericolosi. Uomini trascinati per i piedi sull'erba. Un mazzo di fiori sulla piazzola di partenza sulla quale avrebbe dovuto scattare Bill Ivy, al vecchio Sachsenring. E poi con l'arrivo di un americano incazzoso che a Jarama gettò ai piedi dell'allora  Presidente della FIM Nicolas Rodil Del Valle la corona di vincitore, sorgere il concetto di sicurezza e libertà nel motociclismo.

Così allo stesso modo assistiamo oggi ad una sconfitta. Con questa parola sarà ricordato infatti fra molti anni il Gran Premio di Motegi, così come, al contrario, quello di Spa-Francorchamps del 1979, disputato in assenza dei protagonisti del motomondiale, ancor oggi è ricordato come una vittoria. Anzi, LA VITTORIA, perché da allora l'impero della FIM, grazie anche a uomini come Luigi Brenni, che pure ne faceva parte, iniziò a declinare. Altri tempi.

I piloti di allora rispondeva ai nomi di Barry Sheene, Kenny Roberts, Virginio Ferrari, uomini integri, capaci di rischiare, pur di difendere le proprie idee. Ciò che invece non sono stati capaci di fare oggi Casey Stoner, Jorge Lorenzo e Valentino Rossi, in rigoroso ordine di responsabilità.

Già perché correre a Motegi non è un atto eroico, né tantomeno dovuto. Non aiuta la popolazione giapponese colpita dal disastro di Fukushima, ma maschera al contrario le responsabilità di un governo incapace di fronteggiare un disastro e di prendersene le responsabilità. Già perché come JFK a Berlino, siamo tutti abitanti di Fukushima e se piloti, meccanici ed addetti ai lavori della MotoGP, Moto2 e 125 rischieranno poco, ma pur sempre qualcosa*, dimorando per quattro giorni a 100 Km dalla centrale nucleare tuttora non in protezione, la presunta festa tenta di nascondere la realtà di una zona proibita ormai allargata a 40 Km dall'epicentro del disastro nucleare che ha cancellato abitazioni, abitudini, territorio ed in larga parte vite di uomini e donne come noi a cui non sarà mai più consentito - come non lo fu agli egualmente sfortunati abitanti di Chernobil - tornare alle proprie anche solo per recuperare una foto amata.

A questo pensiamo alla vigilia del Gran Premio del Giappone. E naturalmente a molto altro. Pensiamo infatti anche che un modo per aiutare quella popolazione non sia questo, andare a correre, una semplice mascheratura della realtà, ma bensì accogliere al contrario nelle nostre case soprattutto i bambini e quanti ora vivono come sfollati negli alberghi di Mito, dove solitamente alloggiavamo nei giorni del Gran Premi.

Perché coraggio non è andare a correre a Motegi, stringere bulloni a Motegi o scrivere articoli o redigere comunicati stampa a Motegi, bensì aiutare realmente anche con i propri atti chi in questo momento versa in sofferenza.

Quale aiuto, anche psicologico, possa poi dare la MotoGP al Giappone non è chiaro. L'unica cosa certa è che qualche migliaia di persone vivrà quattro giorni di ansia - quattro giorni perché tutte le squadre hanno scelto di calpestare per meno tempo possibile un suolo comunque contaminato - una paranoia, certo, che ha spinto alcuni addirittura a dimorare a Tokyo, per essere il più lontani possibile. Un bel risultato, questo, per la Dorna che invece di proteggere il "suo popolo", la gente del paddock, ha difeso strenuamente i suoi interessi e quelli della Honda, la più attiva nel minacciare ritorsioni. Già perché in democrazia quando si avverte un forte dissenso popolare si attiva lo strumento del referendum e non c'è dubbio che se ciò fosse stato fatto a Motegi non si sarebbe andati. Ma perché poi si è andati?

La risposta è semplice e nel contempo assurda: per paura. Paura di ritorsioni contrattuali per i piloti e di perdere il lavoro (meccanici ed addetti). Ma questo lo sappiamo. Come sappiamo che la maggior parte delle squadre, nonostante l'Irta abbia inviato una circolare diffidandole dal cercare di introdurre nelle casse delle moto generi alimentari per non rischiare stop in dogana, si sta egualmente attrezzando per avere a disposizione cibo e acqua di importazione. Già perché nei supermercati dei vicini grandi centri, nel reparto ortofrutta, vi sono cartelli che invitano a consumare verdura dell'area di Fukushima, perché se la zona off-limits è di 40 Km, un metro dopo le coltivazioni sono dichiarate "sicure".

Comunque sia, questo è il mondo di oggi e chi ancora pensa che lo sport possa essere considerato un'isola felice, si illude. Comandano gli interessi, e non è una novità. Così gli stessi uomini che ci hanno portato a correre a Shanghai, in Cina, paese sicuramente non democratico, in nome dell'apertura, ne sono fuggiti quando hanno capito che non si facevano affari. Chissà, magari se Fukushima fosse stata vicina all'Estoril o a Brno, non saremmo andati. E senza troppe storie.

 

 

* Il fumo fa male, eppure c'è gente che arriva tranquillamente alle 90 primavere dopo anni di tabagismo. Altri sono meno fortunati. Chi ha ragione? Le radiazioni fanno male, ma fanno male a tutti? Ci sono studi sull'aumento di patologie specifiche nelle aree a rischio. Ma non tutti fortunatamente si ammalano. Come ci suggeriscono con una punta di ironia gli oncologi, ma anche con sano coraggio, se si ha la sfortuna di averci a che fare, l'importante è stare dalla parte giusta dei dati percentuali.

Nota: La centrale non si trova ovviamente nella città di Fukushima indicata nella mappa di Google Earth, ma sulla costa. Si chiama Fukushima Daiichi ed a nord di Fukushima Daini, quella nuova, vicina alle cittadine di Okuma e Futaba.




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