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Fausto Gresini, il dolore per Kato e Simoncelli non lo aveva piegato

IL RICORDO La morte di Daijiro Kato prima e quella di Marco Simoncelli poi lo avevano profondamente colpito e ferito. Forse era stato persino sul punto di mollare tutto, ma da pilota, da campione, sapeva che quella via di fuga uno come lui non l’avrebbe potuta mai prendere

Fausto Gresini, il dolore per Kato e Simoncelli non lo aveva piegato

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Era il 1986, ero appena arrivato al Corsport da Motosprint, abituato a scrivere dei grandi fuoriclasse americani dell’epoca, Spencer, Lawson, Gardner, Mamola. Non è che al settimanale trascurassimo le piccole cilindrate, ma la grande parte delle copertine erano per i duelli degli assi della 500.

Quell’anno però c’era una sfida che gli appassionati non potevano non seguire: Luca Cadalora e Fausto Gresini, sulla stessa, moto, una Garelli, nella 125.

Il titolo andò a Luca, per una manciata di punti, ma a Misano, nell’ultimo Gran Premio, vinse Fausto. Non si fermò più. Fu allora che capii, finalmente, perché l’allora caporedattore, Sergio Rizzo, mi continuasse a chiedere pezzi su pezzi di Gresini.

Inizialmente trascurare la ‘mia’ 500 mi era costato, ma ben presto mi appassionai alla guida pulita di Fausto, alla sua intelligenza tattica, ed anche ad essere un po’ sotto le righe. Il contrario di Cadalora, arguto, ferocemente furbo. Una riedizione moderna di Walter Villa, senza la sua bonaria apparenza.

Ci volle Fausto per farmi capire che un grande quotidiano aveva bisogno dei suoi eroi popolari, e Gresini indiscutibilmente lo era diventato.

L’anno successivo Fausto vinse, consecutivamente, 10 Gran Premi che con quello precedente portò il suo bottino ad 11 prima di essere sconfitto, ma dalla sfortuna, nel Gran Premio del Portogallo che si corse a Jarama, in Spagna, da Paolo Casoli.

Fu, quella, l’ultima stagione di fuoco. Ebbe poi un’altra grande occasione nel 1990 quando quei geniacci dei fratelli Pileri, Paolo e Francesco, gli affidarono una Honda ufficiale inserendo in squadra con lui un brutto ma simpatico anatroccolo: Loris Capirossi.

Per Gresini fu ancora una volta un anno sfortunato: si ruppe l’astragalo, ma da uomo squadra aiutò comunque Loris a vincere il titolo in Australia in un epico duello con Hans Spaan durante il quale, in gara, volarono anche pugni sul casco. Chiunque altro avrebbe odiato il suo compagno di squadra, invece i due divennero grandi amici e Fausto fece la sua parte, con identico risultato, anche l’anno successivo.

Un pilota delle piccole cilindrate, si diceva un tempo. Una storia difficilmente comprensibile oggi che c’è la fuga in avanti verso la MotoGP.

Me lo confessò un giorno, ormai a fine carriera, che avrebbe quantomeno dovuto passare alla 250. Non lo fece mai, ma invece di rammaricarsene iniziò a studiare da team manager.

Il suo primo incarico glielo affidò sempre Francesco Pileri: coach di Loris Capirossi. Era unico, di ex piloti a ricoprire quel ruolo non ce n’erano altri. Il resto è storia.

Una storia che mi ha accompagnato negli anni. Cene, risate, ammiccamenti, baruffe, prese in giro, perché Fausto mica era uno politicamente corretto: se doveva dirti qualcosa te la diceva, senza peli sulla lingua. Ma senza cattiveria o acrimonia. Era uno che se ce n’era bisogno, puntualizzava. Metteva i puntini sulle ‘i’, perché lui era Fausto Gresini, mica l’ultimo arrivato.

Mai, e dico mai, l’ho visto comunque darsi delle arie. Anche fra i suoi: comandava, eh, e sapeva anche essere un tipo duro, ma poi il suo sorriso ti scioglieva.

La morte di Daijiro Kato prima e quella di Marco Simoncelli poi lo avevano profondamente colpito e ferito. Forse era stato persino sul punto di mollare tutto, ma da pilota, da campione, sapeva che quella via di fuga uno come lui non l’avrebbe potuta mai prendere. Nemmeno per errore. Proprio per rispetto a Daijiro e Marco.

In quei brutti momenti lo abbiamo visto soffrire come un padre e poi, col tempo, tornare a sorridere.

Rideva anche di sé stesso e del fatto che, con gli anni, era diventato più rotondetto. Eh, Fausto, nella vecchia, non entri mica più lo si sfotteva e lui, facendo il gesto di toccarsi la pancia ti mandava a quel paese ‘anche tu non stai a dieta, eh!’ replicava dirigendosi al buffet.

Tante, mille conversazioni, mi si affollano nella mente. Il fatto che l’Aprilia non gli desse più ascolto non gli andava giù, ma non faceva scene. Lavorava, invece. Ed infatti aveva deciso di tornare alla classe regina, con il suo team. Era già cosa fatta, Carmelo Ezpeleta glielo aveva già confermato.

Quando te ne parlava gli brillavano gli occhi. Era il prossimo terreno di conquista perché dentro, Fausto, era rimasto un pilota di quelli forti che entrano in pista per vincere, mica per partecipare.

Se lo è portato via questa maledetta malattia, che lo spaventava, come molti di noi, per la sua imprevedibilità, e che lo ha colto di sorpresa, alle spalle, maledetta vigliacca.

Così ora c’è chi piange un grande pilota, il manager competente e corretto ma ora, in questo momento, a noi manca soprattutto l’amico.

E ci viene in mente Ulisse ed il Ciclope, perché il nostro sport è così. C’è la pista, il divertimento, il rischio e, purtroppo, a volte anche la tragedia.

Paolo, Otello, Pat, Tommaso, Patrick, Michel, Sauro, Jock, Ivan, Nobuyuki, Daijiro, Shoya, Marco. Non sono tutti, ma sono troppi, e ci hanno lasciato troppo presto. Come anche Barry e quell’abbraccio a Phillip Island pochi mesi prima dell’addio che non scorderemo mai.

Fausto, non mi ricordo cosa ci siamo detti l’ultima volta, ma non importa. Se dopo averti voltato le spalle mi sono allontanato sono sicuro che mi hai sorriso.

 

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