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Dani Pedrosa: avrei dovuto essere più cattivo

Tre titoli iridati, 54 Gran Premi vinti, a Dani è mancata solo la corona della classe regina. Colpa del fisico minuto e di tanti infortuni. Farà il collaudatore della KTM

Dani Pedrosa: avrei dovuto essere più cattivo

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Provate ad immaginare un peso mosca che dopo aver vinto tre titoli nella sua categoria decida di andare a sfidare i massimi nella loro senza avere la possibilità di salire di peso.
Una impresa impossibile, che si conclude, però, con tre assalti al titolo. Di cosa parleremmo, allora? di tre sconfitte o di tre match indimenticabili?

Bene, questa è la storia di Dani Pedrosa, il pilota che ha iniziato la sua carriera nel 2001 con una Honda 125, vincendo il titolo due stagioni dopo. Un successo che gli ha permesso di passare in 250, dominata per due anni consecutivi. Fino ad arrivare, nel 2006, ad accettare di salire, lui 50 Kg scarsi, su una bestia da 280 cv...

Diciannove anni e 54 Gran Premi vinti dopo il piccolo Dani, oggi l'ottavo pilota più vincente di tutti i tempi  dopo Agostini (122), Rossi (115), Nieto (90), Hailwood (76), Marquez (69), Lorenzo, (68) Doohan (54) ha deciso di ritirarsi.

Lo ha annunciato al Sachsenring, dopo aver saputo che Lorenzo lo avrebbe sostituito nel team Repsol-Honda al fianco di Marc Marquez.

Dani Pedrosa sua imbattibile Honda NSR 250

LA ROTTURA CON HONDA - Avrebbe potuto accettare l'offerta della Yamaha, che lo avrebbe voluto nel neonato team Petronas, ma non sarebbe stato fedele a sé stesso. Ha scelto, invece, di accettare l’offerta della KTM per fare il collaudatore. Il che fa intuire una certa frattura con la casa per la quale ha sempre corso dall’inizio della carriera.

"Non so perché sono sempre rimasto un pilota Honda. Da piccolo mi piaceva la Honda ed il suo team. Ho iniziato con lei, mentre avrei potuto iniziare con Aprilia che aveva 125 più competitive…i primi anni fu difficile vincere con una Honda, tanto che pensai di cambiare ma poi conquistai i titolo, la Honda mi offrì la 250 tanto che dopo altri due titoli approdai al team Repsol-Honda. Era un sogno che si avverava. Dopo non ho più cambiato. Ovviamente ne ho avuto l'opportunità, ma alla fine sono stato l’unico pilota a tenere una linea dritta".

COME STIRLING MOSS - Gli è mancato il titolo nella classe regina, il che, se lo paragoniamo ad un grande della F.1 fa di lui lo Stirling Moss del motomondiale.

"Ho sempre provato a dare il massimo che potevo in ogni occasione. A volte mi veniva facile, in altre, anche a causa di infortuni ho faticato. Ma è stato allora che ho mostrato il mio valore. Se hai davanti una strada piatta è sempre facile andare, ma è quando sale che devi far vedere chi sei".

L'INCUBO DEL PESO - Il suo più grande avversario è stata la MotoGP stessa, perché quando il pugno di un peso massimo si abbatte su un mosca, fa male in modo devastante.

"Il mio limite è stato fisico. Ho avuto tanti infortuni, ed è stato un peccato perché è difficile guidare una moto così quando non sei perfettamente in salute. Una moto, peraltro, che quando ti butta in terra ti fa male. Ho sofferto, ma sono sempre tornato con la forza che avevo dentro e sono risalito sul podio".

Dani sul gradino più alto del podio fra Jorge Lorenzo e Casey Stoner

ERRORI E DOLORI - Qualche volta è stata sfortuna. Altre un errore.

"Ne ho fatti, sì ne ho fatti…Non quello del 2006, quando nell'anno dell'esordio in MotoGP, in Portogallo, tamponai in gara il mio compagno di squadra Nicky Hayden (rischiando di fargli perdere il mondiale N.d.R.). Quello non fu un errore. Sbagliai invece sicuramente nel 2013 quando caddi durante le prove libere del GP di Germania. Avevo 25 punti di vantaggio nel mondiale, ero secondo o primo, non avevo bisogno di uscire e pioviccicava. Mi ruppi la clavicola e persi la chance iridata".

CADERE E FARSI MALE - Una costante per lui, cadere e farsi male. L'esatto contrario del suo attuale compagno, Marc Marquez, capace di incassare tre scivolate a Gran Premio. Dani ha un fisico fragile.

"Le cadute hanno condizionato l'intera mia carriera. Dopo devi guidare sulle difficoltà, perdi gare, punti, perdi la forma fisica, devi recuperarla, perdi anche la stabilità emotiva. E poi non sempre le operazioni riescono bene. Io ho dovuto rifarne molte, soffrendo per questo problema per tanti mesi, così sono caduto nuovamente perché non riuscivo a guidare bene, ed ho perso anche la fiducia...".

IL PRIMO STOP - Uno dei momenti più bassi nel 2015, dopo il primo Gran Premio del Qatar. Dani si fermò paventando addirittura il ritiro per un problema ad un braccio. Non aveva più sensibilità e forza.

"Non sapevo come fare per trovare la soluzione e in quel modo continuare con quel problema non aveva senso: non riuscivo a guidare. L'unica soluzione fu fermarsi".

Dani Pedrosa davanti a Casey Stoner

UNO STILE...IMITABILE - Nel frattempo, però, per ovviare a tutti questi problemi Dani Pedrosa aveva inventato, ed introdotto, un nuovo stile di guida oggi adottato da tutti i campioni.

"Fin dalle piccole cilindrate avevo bisogno di trovare più grip dei miei avversari, che erano più pesanti di me. In piega, al massimo angolo, non avevo aderenza, così iniziai ad alzare la moto sempre più velocemente per avere più gomma a terra e dunque aderenza. Con le moto più grandi è stato più facile perché la velocità in curva e minore e le gomme sono più grandi".

STONER E MARQUEZ - I migliori interpreti dello 'stile Pedrosa' sono stati Casey Stoner e Marc Marquez.

"Marc, di quelli che ho avuto al fianco è il più bravo a gestire tutte le gare dell’anno. Normalmente un pilota ha circuiti favorevoli e sfavorevoli. Ma lui è capace di prendere tanti punti anche nei tracciati che non gli piacciono. E poi quando è sul suo tracciato, vince".

DOOHAN, IL SUO EROE - Non gli piace fare paragoni, a Dani Pedrosa. Nell'era dei social il pilota di Sabadell è un ragazzo estremamente riservato. Non ha difficoltà però ad ammettere chi fosse il suo eroe quando era un bambino.

"Era Mick Doohan. Ma mi appassionavano anche i duelli fra i piloti americani: Lawson, Rainey, Schwantz. Paragoni però non se ne possono fare: Lawson e Rossi? Due grandi campioni. Valentino, a 39 anni sta ancora vivendo la sua vita al massimo, rendendo i suoi tifosi orgogliosi. E quando vedi la gente felice sei a tua volta felice di proseguire con la tua leggenda. I tifosi per un pilota sono importanti. Anche per me che non amo gestire questa parte della mia carriera e che non sento la necessità di far sapere cosa sto facendo in ogni momento della mia vita. Devo comunque riconoscere che il loro affetto  tante volte mi ha aiutato a rientrare dopo gli incidenti. Per questo dico che li amo, anche se la mia passione è salire su una moto e correre. Null'altro".

Pedrosa nell'abitacolo della Red Bull, al suo fianco il pilota di F.1 Mark Webber

F.1? NO GRAZIE - Correre si, ma in moto. Pedrosa non è propriamente quello che gli americani chiamano 'petrol head'. Le auto, per esempio, non gli fanno battere il cuore anche se quest'anno, quando la Red Bull gli ha dato la possibilità di provare una F.1 al Red Bull Ring ha girato più forte di Marquez.

"Certo, dipende dalla macchina. Scendendo da una MotoGP sono poche le auto capaci di emozionarmi. Ho provato delle macchine sportive…ma anche in circuito una auto sportiva non ti da tanta emozione. La F.1 sì, anche una F.3 che ho guidato o le GT sono molto belle, ma io amo le moto".

Un imprinting avuto fin da bambino.

UN CASCO A NATALE" - Avrò avuto cinque o sei anni. Mio papà aveva una Kawasaki 750 e quando lo vedevo uscire con gli amici avrei voluto guidarla. Ricordo ancora il regalo più bello mai ricevuto a Natale: un casco".

Perché un giovane uomo così, un campione amatissimo da tutti quelli che ammirano la guida pulita e la sportività si ritira? E' difficile da capire.

"Le gare non mi hanno stufato, ciò che mi appassiona più è la lotta in pista. Semplicemente non vivo più i Gran Premi con l'intensità di prima. Una volta pensavo solo a questo, ora non più. Ovviamente il tempo mi ha cambiato. Prima vedevo le cose con un angolo di visuale più ristretto, ora lo ho allargato e penso che sia normale, per l'età e l'esperienza. Non ho scelto questo cambiamento. E' successo.  Ho capito cose importanti, ma oggi dovrei saperle gestirle in modo diverso ed in questo mondiale dove c'è un unico piatto di pasta e tutti vogliono mangiarselo, forse, dovrei essere più cattivo".

 

Questo articolo è apparso sul Corriere dello Sport

 

 

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