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La crisi Superbike nasce dalla stampa, ma è colpa delle Case

Il disinteresse dei costruttori ha portato ad un abbandono dei media mainstream. E la TV non può farci nulla

La crisi Superbike nasce dalla stampa, ma è colpa delle Case

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C’è un momento per farsi domande ed un altro per darsi risposte. E se parliamo di Superbike questo momento è arrivato.

Già nel recente passato abbiamo parlato di regolamenti, per quanto riguarda il mondiale delle derivate di serie, ma è evidente che cambiando qui e lì si ottiene poco.
Le moto supersportive di oggi, infatti, sono addirittura più performanti, e costruite per essere veloci in pista - se vogliamo fare un paragone automobilistico - di una Porsche GT3.
Inutile castrarle ulteriormente, già di serie sono ‘iper’ e seppur con le vendite in calo le Case non desistono e sono in arrivo mostri da più di 210 cv.

Quanti credete che ne avrà la nuova Ducati quattro cilindri, 220, 230?
Del resto mandare in pista moto completamente stock è quasi un nonsenso, ma questi mezzi sono già così speciali alla nascita che quasi qualsiasi cosa gli si faccia - nella normale ottica di un affinamento - è poca cosa.

Che cosa, dunque, debba essere il mondiale Superbike devono deciderlo le case.
Continuare così ha poco senso. Gare sprint, tali sono corse di poco più di 100 Km, per un prodotto di serie non hanno senso. Anche la suddivisione di Gara1 e Gara2 fra sabato e domenica non ha senso, se non per le TV che possono vantarsi di aver fatto 1,5 milioni di spettatori.
Sì, sommando le due gare, quando va bene.

Le due manche in due giorni separati sono non solo un problema per gli spettatori, ma anche una perdita di pathos. Già la SBK ha sempre avuto il problema di chi fosse il vero, unico, vincitore con due gare, così è addirittura demenziale.
Ed è inutile andare avanti a parlare di dettagli, come il il campionato che si ferma per un mese e mezzo? Tanto chi lo segue? Chi se ne accorge?

Bisogna dunque avere il coraggio di riformare…il formato. Una 200 Km con rifornimento e cambio gomme obbligatorio produrrebbe uno spettacolo diverso da quello della MotoGP (ridicolo flag-to-flag compreso) e aggiungerebbe un elemento di professionalità.

Non sarebbe comunque una gara troppo lunga, non rischierebbe di annoiare. Non parliamo di Endurance. Stiamo immaginando motori che devono stare assieme - limitandone il numero - per un certo numero di gare di campionato.

Ancora una volta, però, la risposta a questa domanda spetta alle case.
Con cosa vogliono correre? Quali modelli desiderano spingere?

Perché senza case impegnate ufficialmente o tramite i propri importatori (sarebbe la scelta migliore) non c’è spettacolo.
La scelta dunque se correre con moto carenate o con le SBK degli esordi, non carenate e con il manubrio dritto, quelle che oggi chiamiamo streetfighter, spetta a loro.
Anche una riformulazione tecnica e del formato comunque purtroppo non basterebbe.
Bisognerebbe anche riportare i giornalisti al campionato.

Inutile oggi nascondersi dietro ad un dito: per trovare una notizia della SBK sui media mainstream bisogna munirsi di una lente di ingrandimento.
Le sale stampa del mondiale Superbike sono desolatamente vuote di rappresentanti dell’informazione. Chi c’è fa un doppio, o triplo, lavoro. Addetto stampa, fotografo, blogger.
E la TV, da sola, anche free on air, non basta.

Ne abbiamo la tristissima conferma con Mediaset. Chi parla della Superbike nel fine settimana di gare?
Ve lo diciamo noi, nessuno.

C’è il web, che una volta non c’era, è vero. Ma Internet è autoreferenziale. Di Superbike sulla rete legge chi è già interessato a farlo.
E questo perché i giornali, il giorno dopo, non ne parlano.

Credetemi, ho lavorato e lavoro da quarant’anni fra settimanali e quotidiani ed è la carta stampata che crea i personaggi e li fa conoscere al grande pubblico.
La TV ha il merito di portare nelle case l’immediato dell’avvenimento sportivo, ma contribuisce marginalmente all’interesse.
E’ vero il contrario: un atleta che si fa largo sui media mainstream viene poi mostrato dalla TV ed è così che inizia il circolo virtuoso.

Ecco, questo è un mondo che la Superbike non conosce.
Ai tempi dei Flammini, era un po’ meglio, perché la sfida - dichiarata - era quella di fare meglio delle ormai vetuste ma bellissime 500 due tempi. Se moto derivate di serie erano capaci avvicinarsi ai prototipi gli appassionati godevano.

Ma la guerra sotto quel punto di vista è stata persa con la trasformazione da classe 500 a MotoGP.
990 cc per non dire che erano 1000 anch’esse, ricordate?

Anche i Flammini, però, non fecero mai ciò che avrebbe lanciato definitivamente la categoria. E cioè prendere spunto dai Rally che per anni investirono nell’informazione preoccupandosi che le sale stampa delle gare fossero piene.

Un investimento piccolo, che credete? ma sufficiente perché supportato dalle Case.
E ancora più necessario oggi visto che la stampa è in sofferenza.

In MotoGP questo investimento non è necessario perché la stampa ha già costruito i personaggi e le storie da tempo. C’è un effetto valanga che dura da tantissimi anni. Per un campione che lascia, ne arrivano due. E se è vero che Valentino Rossi mobilita le folle, è altresì innegabile che i suoi epigoni hanno costruito la propria fama sulle sue spalle.
Sono lì per battere Rossi. E domani i rookie saranno lì per battere chi lo ha battuto. Marquez, Vinales. Fate voi i nomi.

E’ stato così anche nel passato. Barry Sheene e Kenny Roberts erano venuti dal nulla ma entrambi avevano affrontato Giacomo Agostini.
Per questo arrivando alla fine di questa corrente di pensieri, dico che rivoltando la frittata bisognerebbe proprio partire dalla stampa quotidiana per far ripartire la Superbike.
Honda, Yamaha, Ducati, Suzuki, Kawasaki dovrebbero pianificare un investimento capace di riportare la categoria sui giornali, dopo, evidentemente, aver trovato un accordo comune sull’indirizzo tecnico da seguire.

Jonathan Rea e la Kawasaki non stanno distruggendo nulla, non più di quanto Usain Bolt abbia distrutto i 100 metri e l’atletica.
Al contrario sono i serial winner che affascinano.
Sempre ché, ovviamente, ne parlino i giornali.

Photocredits: Anna Simone

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